PERCHE’ DELL’EMERGENZA EMOTIVA NESSUNO PARLA?

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Nei momenti difficili che stiamo vivendo si sentono e si leggono richieste di aiuto e di bisogno di supporto che hanno forme diverse.

Una cosa accomuna tutte le richieste: il bisogno di esprimere, di far uscire da sé qualcosa che fa male, che sembra non funzionare come dovrebbe.

E’ in questi momenti che ci si può rivolgere a un esperto di benessere ed empowerment: il counselor.

Una professione, il counseling, che muove i suoi primissimi passi all’inizio del 900 nell’ambito educativo e professionale, avente radici nella pedagogia (non nella psicologia) e nell’applicazione delle sue metodiche.

Parliamo dunque di più di un secolo di storia, di contenuti in elaborazione ed evoluzione e di integrazioni che portano questa professione di supporto ad assumere una funzione e un significato diverso nel tempo fino a rappresentare il più antico “approccio” tra la maggior parte delle correnti della psicologia contemporanea.

counselingOggi il counseling riguarda il benessere, l’educazione, la crescita personale, la carriera e le situazioni di empowerment e si estende fino ad approdare in aree che coinvolgono problemi relazionali, di conflitto, all’interno di sistemi diversi.

Per fare un esempio: se una coppia ha problemi relazionali, o se i genitori hanno costanti conflitti con figli adolescenti, o ancora, non riescono a gestire e contenere i “capricci” di bambini piccoli, ci si può rivolgere ad un counselor, meglio ancora se di formazione sistemica.

Anche nel contesto aziendale può nascere la necessità di un supporto di questo tipo: le incomprensioni tra colleghi possono generare conflitti, annullando l’ascolto e l’empatia tra le parti. In questo caso, come i precedenti descritti, il sostegno del counselor si traduce in un intervento di guida e di facilitazione di consapevolezze e apprendimenti concreti per stare meglio in quelle “relazioni” disfunzionali.

L’elemento significativo che contraddistingue questa meravigliosa professione è il focus posto proprio sul processo dinamico, sul Come!

Il counseling è condotto dunque con persone attraverso sessioni individuali o di gruppo.

counseling 2L’attività di counseling implica scelte e cambiamenti. E’ come se fosse “una prova generale dell’azione” che poi sarà la persona a mettere in atto attraverso quel processo iniziato con il counselor e che prende il nome di “autodeterminazione”.

Durante il colloquio di counseling non avviene nessuna forzatura, le decisioni prese avvengono sempre sotto il “dominio” del cliente, che in buona parte arriva in autonomia a fornire alternative valide per sé e i suoi bisogni.

Tra le tante descrizioni che si possono fare di questa professione di aiuto, mi sono imbattuta in una narrazione breve sull’etimologia.

La parola Counseling la ereditiamo del verbo inglese «to counsel» la cui origine latina è quella del verbo «consulo-ere» che significa «sollevare insieme», essendo composto dalla primitiva «cum» che significa «con», «insieme» e dal verbo «solĕre» che significa «alzare», «sollevare». formica

E’ un significato che spiega il senso profondo del contributo del counselor per le persone che sentono di non stare bene dove sono, o come sono o con chi sono, e vorrebbero sollevarsi verso una “dimensione” di se e dello stare con se e con gli altri semplicemente diverso, praticamente migliore!

Per conoscere altri ambiti del counseling, scriveteci!

Articolo di Simona Cianchetti                                                                                           (Counselor, Coach PCC)

 

RISPONDI A QUESTA DOMANDA: FAI UN LAVORO CHE TI PIACE E CHE TI DA’ CERTEZZE?

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Confucio disse “fai un lavoro che ti piace e non dovrai lavorare un sol giorno nella tua vita”..

Utopia o realtà?

Domanda difficile, mi rendo conto..

Ma soffermiamoci per un momento a pensare al nostro lavoro, a come ci sentiamo quando inizia l’orario lavorativo, all’ambiente in cui lavoriamo, ai colleghi.

Se le sensazioni non sono così positive, forse c’è già una risposta.

Potrebbe essere successo che la strada che ci ha portato a fare il nostro attuale lavoro, non sia stata guidata dalla motivazione ma da altri fattori, quali spinte genitoriali, valutazioni logistiche, sicurezza, stabilità, status sociale.

Per molti anni la nostra società ha funzionato in base al criterio: finisco di studiare, mi trovo un lavoro serio; mi impegno e faccio carriera; vado in pensione. Ormai sappiamo, però, che questo bel piano non funziona più, nel tempo è diventato inadatto alle trasformazioni che la nostra società ha messo in atto negli ultimi anni.

Non solo.

Questa epidemia mondiale ci ricorda quanto sia incerto e in continuo mutamento il nostro mondo iper-connesso e sta mettendo in crisi le certezze “del posto fisso”.

Oggi più che mai le nostre carriere possono seguire traiettorie che non sono più lineari e semplici come un tempo, l’incertezza è un dato di fatto.

Come facciamo a trasformare l’incertezza in un vantaggio?

zen approach

Vediamo come.

Un primo passo è fermarsi (e adesso forse ne abbiamo tutto il tempo).. siamo sempre così impegnati a riconoscere gli aspetti materiali del nostro lavoro, da tralasciare quelli emotivi.

 

Sembrerà una frase fatta, però “se il successo non è la chiave della felicità, la felicità è la chiave per il successo”!

Un secondo passo è capire cosa ci piacerebbe fare, pensare ai nostri talenti, togliendo il pilota automatico, osservando attentamente il proprio ambiente e diventando pienamente consapevoli di cosa ci renderebbe felici.

Quando si inizia a guardarsi dentro con consapevolezza, si possono trovare nuove strade, o anche riconoscere (e quindi sfruttare) le occasioni che si presentano in ogni momento.

knock knock

Non possiamo aspettare che l’occasione della vita bussi insistentemente alla nostra porta, potremmo non coglierla mai anche se ci è passata accanto.

Al contrario, se impariamo a guardare con occhi positivi e proattivi, se ci chiediamo sempre “cosa c’è di buono per me in questa situazione”, le occasioni non verranno sprecate.

Non dimentichiamo però che ogni azione porta con sé dei rischi, è quindi sempre necessario fare una seria valutazione dei costi/benefici insiti in ogni decisione e scelta. Quali sono i benefici, ma anche quali sono i costi e i rischi che potrei dover affrontare in questa situazione?

Per farlo, è utile sviluppare competenze come curiosità, persistenza, flessibilità, ottimismo e assunzione di rischi. E, soprattutto, fiducia in se stessi, nelle proprie competenze e nella soddisfazione che il lavoro che stiamo facendo sia quello giusto per noi.

James Hillman, psicologo junghiano lo spiega con la metafora bellissima della TEORIA DELLA GHIANDA, nel suo libro Il codice dell’anima. Ne consiglio la lettura. Hillman sostiene che tutti abbiamo un talento innato che ci definisce e che aspetta solo di essere individuato, chiede di essere realizzato per portare felicità ed equilibrio nella nostra vita…

Cosa aspettiamo?

Abbiamo il lavoro giusto e tutte le competenze che ci servono per farlo al meglio?

Se la risposta è no, questi giorni di forzata “immobilità” possono essere il momento giusto per strutturare un piano e capire come ripartire per raggiungere il nostro lavoro ideale.

dream job

Alla prossima!

articolo di  Yara Maria Bravo

 

 

GESTIRE LA CRISI.

CONSIGLI UTILI SUL PIANO PERSONALE E PROFESSIONALE PER CREARE POSITIVITA’ IN QUESTO MOMENTO DI GRANDE INCERTEZZA

coronavirus

Il momento di tensione legato alla diffusione del Coronavirus a livello globale, da un lato costituisce sicuramente una situazione di crisi, ma potrebbe anche essere un importante momento di passaggio evolutivo, nel contesto familiare e professionale.

La crisi è data dallo stato di angoscia e malessere, dalla paura di ammalarsi, dal timore di perdere i propri cari e dalle difficoltà economiche. Inoltre non sapere per quanto tempo perdurerà questo stato di crisi, aumenta ancor di più le paure.

Tutto normale e assolutamente lecito, anche nelle persone con un atteggiamento mentale più ottimista e positivo, occorre però cercare di mantenere la lucidità utile per creare un piano d’azione, prendere le giuste decisioni e essere di supporto (anziché di peso).

Capiamo come.

PER CHI STA A CASA:

stayhome

Come gestire le giornate infinite?

  1. A livello fisico, il primo consiglio è quello di non cambiare di troppo la nostra routine. Andare a letto più o meno allo stesso orario e mantenere la sveglia è utilissimo per ricordare al nostro cervello che ci sono regole quotidiane da rispettare, che il tempo non è dilatato e che occorre pianificare le attività quotidiane con un certo ordine, proprio come si faceva prima quando si aveva poco tempo a disposizione ed eravamo tutti abilissimi maestri di “gioco all’incastro”.
  2. Vestiamoci, laviamoci, prendiamoci cura di noi. Non aiuta rimanere in pigiama tutto il giorno o non farsi la barba. Sembrerà strano, ma questo agevolerà nel nostro cervello un senso di prevedibilità e sicurezza, utilissimo in questo momento!
  3. E con i figli? Stabiliamo orari per i compiti, quelli per il gioco libero e quelli per il gioco “tecnologico”. Creiamo un vero e proprio planning che anche loro possano vedere e rispettare. Ad esempio: dalle 9 alle 10.30 studio, dalle 10.30 alle 11.30 giochi liberi (nascondino, lego, puzzle, bambole, macchinine, ecc.), dalle 11.30 alle 12.30 TV, pranzo, ecc..
  4. friendsPensa positivo! Sembra ovvio, ma non è così scontato.. Dalla negatività non può svilupparsi nulla di positivo, anzi..il rischio è che si generi un loop mentale negativo. Un piccolo esercizio potrebbe essere di pensare, prima di andare a letto, quali sono gli aspetti positivi nella giornata appena conclusa. L’esercizio è utile anche per i bambini, per allenarli al pensiero positivo e al sentimento di gratitudine.

PER CHI LAVORA DA CASA O GESTISCE UN TEAM DA REMOTO:

Virtual-Team-Building-Redbooth-V3

L’emergenza e la paura necessitano di leader che indichino la direzione.

Occorre saper far mantenere la calma e la lucidità a chi lavora con noi, non è facile…ma i capi sono lì anche per questo!

 

  1. Forniamo risposte rapide e sicure: i nostri collaboratori possono avere paura. Non dimentichiamo che, al di là degli aspetti operativi e degli obiettivi aziendali, il nostro compito è quello di preservare il benessere dei chi lavora con noi. Indiciamo riunioni periodiche, comunichiamo la direzione in cui l’azienda si sta muovendo, i prossimi passi, chiediamo loro come si sentono e che bisogni avvertono. Siamo presenti!
  2. Utilizziamo un linguaggio positivo: le parole negative o che possano abbattere (purtroppo, sfortunatamente, tragicamente, ecc..), sono assolutamente da evitare. Il ruolo del capo è di essere incoraggiante e di rasserenare. Sforziamoci di mantenere il giusto atteggiamento.
  3. Manteniamo il contatto con i nostri clienti. In questo momento difficile per tutti, è importante la presenza. Inviamo, attraverso i nostri canali di comunicazione, le modalità in cui possono entrare in contatto con noi e con l’azienda, le modalità in cui stiamo operando. Sottolineiamo la vicinanza, magari mettendoci la faccia in prima persona, questo aiuterà a mantenere alta la fidelizzazione.
  4. dog sleepingCerchiamo di mantenere il più possibile un comportamento proattivo: pensiamo a quali potrebbero essere le proposte da fare a clienti e collaboratori, troviamo nuove idee, manteniamoci attivi e non finiamo “in letargo da quarantena”, perché il rischio è che, una volta finita l’emergenza, si rischi si essere fuori dai giochi.

 

Il periodo difficile finirà prima o poi, approfittiamone per migliorare.

L’incertezza e la paura non generano solo sensazioni negative, ci aiutano e ci incoraggiano a pensare e a reagire!

Qualora però avvertissimo sensazioni di malessere, non c’è niente di male ad alzare la mano, mettere da parte l’orgoglio e chiedere aiuto a un professionista che possa aiutare a gestire la difficoltà.

Contattateci per una sessione di coaching gratuita,

siamo a disposizione!

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L’ARTE DEL GENITORE

genitori

Essere dei genitori è diventato difficile.

Non che in passato non lo fosse, ma i nostri genitori avevano a che fare con bambini e adolescenti meno interattivi, oserei dire meno “svegli”.

Le nuove generazioni non amano conformarsi e seguire le regole: da un lato questo è positivo, significa evoluzione, diversificazione, apertura mentale..ma ai poveri genitori chi pensa?

Noi genitori, già alle prese con realtà lavorative complesse e che richiedono sempre più tempo in ufficio, ci troviamo a sentirci spesso sopraffatti dalle situazioni: i compiti, gestione delle regole familiari, le gelosie con gli altri fratelli, l’organizzazione del tempo libero dei bambini e – ciliegina sulla torta –  i conflitti che arrivano già dalla pre-adolescenza.

Come fare a uscirne vivi?parents

Come gestire veramente bene la relazione genitore-figlio imparando a farsi ascoltare e ad ascoltare a nostra volta?

Come farli crescere sereni ed educati?

Quello che noi genitori dovremmo imparare a fare è ciò che apprendiamo in azienda. Avete presente la leadership situazionale? Ovvero, cambiare stile a seconda della fase di maturità del collaboratore.

Ecco, il genitore dovrebbe cambiare atteggiamento nei confronti dei figli in base alla situazione che si sta vivendo o al problema da affrontare. Un approccio sempre direttivo, eccessivamente protettivo o (all’opposto) troppo amichevole, non si presta bene alle diverse fasi di crescita dei nostri figli.

Una sorta di genitore-coach, che si mette davanti, di lato e ad un certo punto dietro il proprio figlio per proteggerlo, per dargli gli strumenti di valutazione indipendente e per lasciarlo andare..

perfect parents.pngQuesto approccio è complesso da gestire dal punto di vista emotivo perché i genitori cercano sempre di aiutare i propri figli evitando loro di commettere errori per non vederli soffrire.

Tuttavia essi dovrebbero quasi concentrarsi di più nel preparare la strada che i figli percorreranno, favorendone attitudini e potenzialità e lasciandoli liberi di scegliere, sostenendo i loro “gesti spontanei” e aiutandoli a riconoscere il proprio sé.

Ma se i figli prendono una strada diversa da quella che si attendono i genitori?

Non c’è da preoccuparsi, essi continueranno sicuramente a vivere i valori che gli sono stati trasmessi e sapranno cavarsela autonomamente con una buona dose di autostima.

***

Questi e altri temi verranno trattati nel mio prossimo seminario sull’ARTE DEL GENITORE a Milano il 13 maggio con altre due colleghe coach Simona Cianchetti e Yara Bravo.

Il seminario si pone l’obiettivo di lavorare sulla consapevolezza dei genitori relativamente alle proprie modalità educative, che riflettono le modalità educative che hanno ricevuto a loro volta e che talvolta rendono difficile questo compito.

Si analizzeranno gli atteggiamenti e le parole errati che potrebbero demolire l’autostima dei figli o incrinare la relazione con essi.

Verranno inoltre forniti strumenti per facilitare la relazione agendo allo stesso tempo su:

  • L’EMOTIVITÀ
  • LA GESTIONE DEL CONFLITTO NEL PERIODO ADOLESCENZIALE
  • L’ACCRESCIMENTO DELLA LORO AUTOSTIMA
  • IL RISPETTO DELLE REGOLE

Ecco la locandina…le iscrizioni sono aperte!!!

locandina genitori

Che cos’è la felicità e da cosa dipende

felicita

In un periodo sociale di grande incertezza, nel quale ci troviamo a dover supportare molti amici o ex colleghi senza lavoro e in cui si fatica ad essere motivati… come si può fare a vivere con felicità, speranza e soprattutto con un atteggiamento positivo?

Perché diciamocelo, quando tutto va bene è facile essere felici e motivati, mentre quando gira male è molto più complesso e sembra di avere una zavorra sulle spalle che ci abbatte fisicamente e moralmente.

Molti studi hanno recentemente dimostrato che la felicità e la motivazione di una persona non dipendono soltanto da fattori oggettivi (reddito, successo sociale, salute) quanto soprattutto da un atteggiamento mentale positivo.

Sembra quindi confermato il pensiero di Aristotele che già nella Grecia Antica diceva che “i soldi non fanno la felicità”..

Anche il paradosso di Easterlin (negli anni ’70)  ha evidenziato, a conferma di quanto detto, che il reddito non giustifica sufficientemente il benessere di un individuo e da ultimo,  il recente saggio di A. Weiss e T.C. Bates “Happiness is a Personal(ity) thing” (2008) individua addirittura alcuni fattori determinanti la nostra felicità.

Secondo i due autori la felicità è determinata per il 50% da fattori genetici e modelli condizionanti familiari, solo per una piccolissima parte (circa 8%) da fattori materiali (finanze, status, potere) e per il resto dall’atteggiamento mentale dell’individuo.

happinessAppare quindi ampiamente confermato come la felicità non sia qualcosa da vincere o conquistare, bensì da cercare dentro di noi e continuare a generare giornalmente.

Il nostro cervello ci supporta in questo (se non facciamo resistenza), mantenendo sempre attive le centraline del piacere e della gratificazione, e producendo ormoni come la serotonina.

Quali sono le convinzioni che ci portano a opporre resistenza?

  1. La felicità non dipende da noi, è un fattore che arriva dall’esterno”: come già detto, non sono fattori materiali a renderci felici, ma le condizioni noi che poniamo alla felicità a renderci insoddisfatti.
  2. Essere felici è da sciocchi: può succedere che la felicità sia scambiata per superficialità. C’è anche il detto “il riso abbonda sulla bocca degli stolti” che riassume questa convinzione evidenziando che piuttosto l’unico modo di essere profondi sia essere tristi e malinconici.
  3. La felicità è fenomeno raro: alcune persone sono convinte che come gli amici veri si possono contare sulle dita di una mano, così la felicità corrisponde a rarissimi eventi della vita (nascita di un figlio, matrimonio, un’offerta lavorativa gratificante, ecc..) e non nelle piccole cose quotidiane.
  4. Essere felici porta sfortuna: Altra convinzione che deriva da fattori culturali porta a pensare che “chi ride il venerdì, piange per tre dì..”. E’ un fattore scaramantico culturale secondo cui meglio non essere troppo felici perché la sfortuna potrebbe essere dietro l’angolo..
  5. Non è giusto essere felici: con tutte le persone che soffrono, come si fa ad essere felici? E’ quasi una questione di tipo morale secondo cui essere felici è la manifestazione di una mancanza di rispetto nei confronti del dolore o delle difficoltà.

Ecco allora qualche spunto per apprendere la felicità:

consapevolezza

Consapevolezza: si può iniziare a cambiare solo se si ha la consapevolezza che qualcosa di noi non va bene o non ci piace;

 

proattivita

Proattività: inutile aspettare che qualcosa cambi…il primo passo è mettere in atto azioni ben precise per fare accadere qualcosa;

assertiveness

Scelte linguistiche: iniziamo anche a scegliere le parole che utilizziamo diminuendo le parole negative e scegliendo solo quelle positive;positive

Bilancio positivo di fine giornata: abituiamoci a chiederci, alla fine di ogni giornata, cosa ci è successo di positivo e impariamo a viverlo con gratitudine, anche per le più piccole cose.

 friends

Amici: le nostre frequentazioni possono condizionare il nostro stato d’animo. Scegliamo persone felici che sappiano farci ridere e allontaniamoci da quelle negative..

 

Alla prossima amici…LE COSE BELLE ACCADONO A CHI SORRIDE!

 

QUANTO SONO SODDISFATTO DI ME?

PREJUD

Chissà quante volte abbiamo fatto un’autoanalisi di questo tipo.

Sicuramente avremo delle aree in cui non ci sentiamo a nostro agio, aree in cui sentiamo di non essere adeguati..in cui la nostra autostima non è molto alta.

Secondo voi, avere una buona autostima è qualcosa di innato o acquisito?

È carattere? Quali sono fattori possono incrementarla o demolirla?

Ci sono molti studi a riguardo..ne ho letto recentemente uno interessante che evidenzia alcuni dati degni di approfondimento:

  1. La nostra autostima cresce sino all’età di 21-23 anni
  2. Non si evidenziano differenze di genere relativamente a chi si sente meglio con se stesso
  3. tra i fattori legati ad un buon livello di autostima, vi sono la stabilità emotiva e l’estroversione
  4. il condizionamento genitoriale influenza profondamente il livello di autostima

Ho integrato questa ricerca al mio seminario sull’AUTOSTIMA E EMPOWERMENT che vedrà la sua quarta edizione il 22 ottobre 2016.

Allego la locandina per chi volesse partecipare!

locandina-autostima

Vi aspetto!!

 

CONFLITTI VERBALI E AGGRESSIVITA’: COME GESTIRE PERSONE DIFFICILI

aggressivo

Un’azienda su sette è ad alto rischio di prepotenze e prevaricazioni, secondo una ricerca di SDA Bocconi in collaborazione con INAIL dei primi mesi del 2016. 

Ma non vale solo per le aziende..

Quando accompagno i miei figli al parco giochi noto come i bambini si mostrano spesso aggressivi e prevaricanti fra loro e guai ad intervenire in un loro litigio, perché si potrebbe scatenare l’ira del suo genitore, ancor più aggressivo e prevaricante del figlio.

Si potrebbe dire, generalizzando, che viviamo in un mondo pieno di persone difficili da gestire: aggressive, maleducate, prepotenti, supponenti, arroganti e superbe.

bad good

La cattiva notizia è che non le cambieremo mai. Non fa parte del nostro ruolo..

La buona notizia è che possiamo apprendere a gestirle interagendo correttamente e senza doverle “subire”.

Perché, se ci avete fatto caso, queste persone non mettono in atto gli stessi comportamenti con tutti ma hanno la tendenza a infierire con alcune tipologie di interlocutori specifici. Si tratta allora di gestire la relazione con queste persone nel modo giusto, utilizzando tecniche comunicative precise e con consapevolezza.

 Vediamone insieme qualcuna:

question mark1. Imparare a rispondere con una domanda anziché di reagire d’istinto: l’attacco verbale è messo in atto volutamente per ferirci ed è normale che la risposta istintiva esca dalla nostra bocca per colpire a nostra volta. Ma fare una domanda al posto del contrattacco ha almeno 4 significati strategici:

  • diventare padroni della conversazione
  • non dargli soddisfazione
  • metterlo nella condizione di dover elaborare una risposta
  • prendere tempo per controllare e gestire le proprie emozioni

2. Mettere in atto un ascolto empatico: chiedetevi il motivo per cui questa persona siempathic listening comporta in questo modo e provate a immaginare cosa potrebbe esserci dietro a comportamenti di questo tipo (insoddisfazione? Malcontento? Rabbia repressa troppo a lungo? Rabbia? Frustrazione?). Questo atteggiamento dovrebbe aiutarvi a relazionarvi in un modo più morbido e comprensivo e questo potrebbe aprire una cooperazione o comunque far diminuire il livello di aggressività dell’altro. Un atteggiamento aperto all’ascolto in una relazione aggressiva è una bella risposta di forza interiore e consapevolezza e tenderete a destabilizzare la persona difficile.

3. Tenere sempre presente il proprio obiettivo: nelle situazioni difficili a volte perdiamozen approach di vista il nostro obiettivo e tendiamo a farci coinvolgere emotivamente. Ma come si può portare avanti una strategia se si ha la vista annebbiata? Rimanere focalizzati su ciò che è importante per noi è una tecnica non semplicissima ma utile e efficace.

4. Utilizzare un approccio assertivo: con il comportamento assertivo è possibileassertiveness affrontare le persone aggressive gestendole con determinazione, tirando loro le orecchie, ma sempre rimanendo nel giusto. L’approccio assertivo è una strategia vera e propria che pone le sue basi sul concetto di “non mi faccio calpestare la mia dignità”e al contempo non calpesto la dignità degli altri”.

 

E se in azienda si ha a che fare con un capo con queste caratteristiche?

Si possono utilizzare i 4 punti sopra elencati per rispondere in maniera adeguata ed efficace gestendo i comportamenti aggressivi e il ruolo gerarchico del proprio interlocutore.

Vediamo come..

  1. Domandarsi quale potrebbe essere il comportamento più utile in una situazione come quella (SERVE A FORZARE L’OGGETTIVAZIONE E AD ABBASSARE LA COMPONENTE EMOTIVA);
  2. Domandarsi cosa si vorrebbe ottenere da quello scambio comunicativo (SERVE PER TENERE A MENTE L’OBIETTIVO);
  3. Pensare a come potrebbe sentirsi il nostro interlocutore in quel momento e quale potrebbe essere il suo stato di difficoltà per reagire in quel modo (ASCOLTO EMPATICO, SERVE PER COMPRENDERE IL PUNTO DI VISTA DELL’ALTRO);
  4. Rallentare la velocità del proprio eloquio forzandosi a parlare lentamente (DOPPIA FINALITA’: MISURARE LE PAROLE E DARE LA PERCEZIONE DI ESSERE CALMI E DETERMINATI);
  5. Fatelo concentrare sugli aspetti positivi (SERVE PER INIZIARE UNA COMUNICAZIONE NON BASATA SUL BOTTA E RISPOSTA). Esempio: “Io sono il capo!” “Bene, è importante avere una figura di riferimento e esperienza nel team. Cosa suggerisci quindi?”.

Questo ultimo punto è importantissimo perché in base ad alcuni studi pubblicati sul Journal of Experimental Social Psychology una persona in posizione di potere che è solita gestire le proprie relazioni con aggressività, ha la tendenza a ridurre il livello di aggressività espressa se riceve dai propri collaboratori consenso ed approvazione appagando il suo bisogno di sicurezza.♥♥

In fin dei conti anche i cattivi hanno un cuore….pitbull

Alla prossima!

 

IGNORANZA O INDIFFERENZA?

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Mi capita spesso di trovare in aula alcuni dipendenti demotivati…

Ho compreso che la loro motivazione non è quasi mai data da fattori di tipo economico (aumenti di stipendio, bonus, ecc..) né da fattori legati alla carriera, essi lavorano piuttosto con una bassa motivazione in relazione all’indifferenza aziendale verso le risorse umane.

Cos’è l’indifferenza?

E’ uno stato affettivo neutro che si manifesta con  assenza di considerazione, insensibilità, distacco e freddezza.

E’ lecito vivere relazioni con indifferenza, nella misura in cui non si è interessati alla relazione con alcune particolari persone.

Ma mi domando: qual è l’utilità di mostrare indifferenza verso i propri collaboratori? indifferent.jpg

Non è forse controproducente spingere un collaboratore alla demotivazione e alla frustrazione di una bassa considerazione?

Alcuni manager sono indifferenti per problematiche personali:

  • faticano a entrare in empatia e quindi mancano di coinvolgimento emotivo,
  • vogliono proteggere se stessi
  • hanno una natura fredda e distaccata
  • utilizzano l’indifferenza come strumento di manipolazione (strumento di punizione)

 

Altri manager invece sono indifferenti per ragioni legate al proprio ruolo professionale:

  • ignorano perché pensano che mostrando comprensione, il dipendente potrebbe approfittarne
  • temono che la loro leadership possa essere indebolita da un atteggiamento più “friendly”
  • pensano che essere partecipi e comprensivi con un dipendente possa significare non poter pretendere più nulla da lui
  • sono convinti che il loro ruolo non sia quello di fare “gli assistenti sociali”
  • non hanno mai abbastanza tempo

 

Alcuni invece manifestano un’indifferenza celata da partecipazione, si tratta di altri errori tipici che hanno in comune la mancata considerazione del proprio collaboratore:boss

  • parlano di se stessi e delle proprie esperienze pensando di aiutare
  • vanno direttamente alla soluzione (la propria!) del problema presentato dal collaboratore
  • pensano che aiutare sia FARE e non ASCOLTARE
  • giudicano apertamente il collaboratore screditandolo, mettendo sul ridere ciò che viene presentato.

 

Siete dei capi? Quali di questi errori commettete?

 

Quali errori invece commettono i vostri capi?

ALLA PROSSIMA!!

COME ALLENARE LA PROPRIA AUTOSTIMA

AUTOSTIMA.jpg

Le radici della nostra autostima risiedono nella nostra infanzia, dove abbiamo appreso la consapevolezza di essere amati, ascoltati, accettati e riconosciuti dai nostri genitori.

Da piccoli, infatti, avevamo tutti una grandissima fiducia in noi stessi…chi ha figli piccoli può ancora sperimentare, divertendosi, il loro senso di onnipotenza (“vorrei fare il calciatore e l’astronauta!” , “vorrei fare il pittore e lo scienziato!”).

Il comportamento e l’incoraggiamento dei genitori è in tal senso fondamentale perché è da loro che il bambino apprende e costruisce la sua personalità, imparando anche a differenziare il concetto di sé (fare l’astronauta e il calciatore) dalla valutazione positiva di sé (autostima).

L’autostima è solo una parte di ciò che costituisce la totalità del benessere, ma è fondamentale ed agisce come se fosse una lente di ingrandimento messa al contrario che rimpicciolisce l’auto-percezione delle proprie risorse personali.

Cosa succede quando si ha una bassa percezione di sé?

low_self-esteemSuccede che l’idea che abbiamo di noi riesce a condizionare il nostro comportamento e le nostre aspettative verso noi stessi per “auto-confermarci” questa convinzione. L’effetto PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA è il risultato di questo processo ed è capace di generare un circolo vizioso che porta al peggioramento di uno stato interno già negativo in partenza che può quindi soltanto peggiorare: l’aspettativa di un fallimento apre la strada al fallimento che genera nuove aspettative di fallimento, ecc…

Come fare quindi se da adulti ci si ritrova con una bassa autostima?

La buona notizia è che gli esseri umani sono sistemi complessi adattivi, hanno cioè la capacità di cambiare, evolversi e adattarsi nella loro relazione con se stessi e con gli altri…per cui non è mai troppo tardi per allenare la propria autostima!

Poiché l’autostima è una percezione del proprio valore, delle proprie capacità e anche della calimero3propria unicità, si potrebbe iniziare a lavorare sulle convinzioni che ognuno ha di se stesso.

Talvolta si ha una bassa percezione del proprio valore solo in un contesto della propria vita (ad esempio nelle relazioni con il sesso opposto) ma per il resto si è soddisfatti.

Nel mio prossimo seminario del 16 aprile 2016 a Milano verranno presentate alcune tecniche per lavorare sul proprio valore personale rimuovendo gli schemi inconsci che generano l’effetto profezia che si auto-avvera.

Un’esperienza profonda che partirà dall’analisi di ciò che abbiamo vissuto nella nostra infanzia e che ha “minato” la nostra autostima, sino ad arrivare all’empowerment, ovvero alla riprogrammazione della propria mente per creare nuove consapevolezze e una visione positiva di se stessi.

Ecco la locandina!  seminario autostima

Vi aspetto sabato 16 aprile 2016!

Per info e iscrizioni: info@emmecistudio.net

 

IL VALORE DI UN SORRISO

SMILE

Il sorriso è uno dei più importanti strumenti comunicativi e la sua portata è di forte impatto. Chi sorride entra subito in empatia con l’interlocutore e riesce spesso a contagiarne l’umore. Le persone che sorridono poco (alcuni esempi di personaggi famosi possono trovarsi in Margareth Thatcher, Victoria Adams, Bruce Willis, Hugh Laurie/dottor House, Josè Mourinho, ecc..) paiono scontrose o aggressive.

A livello percettivo, siamo portati ad associare una persona sorridente a stati d’animo positivi, come la simpatia, la cordialità, l’empatia, la disponibilità e l’apertura relazionale.

Più in generale, la capacità di sorridere è un’abilità sociale che trasmette una visione ottimistica ed è un efficace strumento di self-marketing: spesso infatti il sorriso è il primo “biglietto da visita” nei rapporti interpersonali e non solo quelli di vendita.

Se il sorriso è sincero trasmette apertura e gli studi in ambito comunicativo ne sottolineano la potenza in termini persuasivi e seduttivi: un bel sorriso conquista e genera in chi lo riceve, il piacere di instaurare una relazione professionale o personale.

Tuttavia non sempre il sorriso comunica apertura e disponibilità relazionale.

Come fare a riconoscere se un sorriso è sincero o meno?

Ci viene in aiuto l’analisi della comunicazione non verbale che rispetto a questa modalità comunicativa, ci segnala che ci sono essenzialmente due tipi di sorriso: quello vero, spontaneo e quello falso, di circostanza.

Il sorriso vero è aperto, ed è quello in cui si mostrano i denti; generalmente è istintivo ed autentico e porta a socchiudere leggermente gli occhi e far “gonfiare” gli zigomi.

E’ sempre importante che il sorriso sia sincero e non forzato, tuttavia, in alcune situazioni professionali, ci si trova a dover sorridere facendo quello che si dice “buon viso a cattivo gioco” anche se non se ne ha molta voglia. In questo caso manifestiamo finti sorrisi, che possono essere caratterizzati secondo tre diverse tipologie: il sorriso forzato, il sorriso a labbra strette e quello storto.  realvsfakesmile.png

Nella foto a sinistra, il primo sorriso appare naturalmente sincero e presenta le caratteristiche appena descritte, mentre il secondo è finto e forzato.

Possiamo riconoscere il sorriso forzato dal fatto che a ridere è solo la bocca mentre gli occhi hanno un’espressione più o meno indifferente. Un’altra caratteristica del sorriso forzato è quella di essere leggermente più marcato su un lato della bocca (generalmente il lato sinistro).  E’ il tipico sorriso “di rappresentanza” ma non è affatto convincente e il destinatario non ne conserva un buon ricordo.

charlene monaco

Capita anche spesso di vedere alla televisione o sui giornali foto di personaggi famosi o di politici che sorridono a labbra strette. Questo sorriso è classificato tra i sorrisi finti perché rappresenta più un gesto di cortesia e anzi, a volte viene utilizzato per non manifestare palesemente l’antipatia o il disappunto verso l’interlocutore o l’argomento. Anche in questo sorriso gli angoli della bocca si tendono e gli occhi manifestano scarsa emozione.

lady diana

Il sorriso storto viene utilizzato tutte le volte che sorridiamo e comunichiamo nel contempo sarcasmo o scherno. In questo caso il viso presenta la bocca sollevata solo da un angolo lasciando l’altro angolo senza alcuna espressione. Le sopracciglia sono talvolta sollevate e inarcate; per individuare questo tipo di sorriso, occorre essere molto esperti perché questa espressione dura pochissimi secondi. Per comprendere meglio la “falsità” di questo tipo di sorriso, si può coprire con una mano la metà del viso della figura qui a lato e constatare che da un lato si coglie il sorriso mentre dall’altro il viso risulta inespressivo e quasi spento.

L’incapacità di sorridere è un segnale non verbale di evidente chiusura. Si è scoperto che sorridere mette in azione oltre il 50% di muscoli in meno rispetto a quelli che attiviamo quando facciamo il muso o espressioni severe.

Suggerisco di sorridere sempre perché è come se costruissimo un ponte fra noi e gli altri.

Se qualcuno non capisce perché sorridete e considera che (come afferma l’antico detto) “il riso abbonda sulla bocca degli stolti”, non è un buon comunicatore e questo è un problema suo, non vostro!.

handsmile

 

Alla prossima!