PERCHE’ DELL’EMERGENZA EMOTIVA NESSUNO PARLA?

sadness

Nei momenti difficili che stiamo vivendo si sentono e si leggono richieste di aiuto e di bisogno di supporto che hanno forme diverse.

Una cosa accomuna tutte le richieste: il bisogno di esprimere, di far uscire da sé qualcosa che fa male, che sembra non funzionare come dovrebbe.

E’ in questi momenti che ci si può rivolgere a un esperto di benessere ed empowerment: il counselor.

Una professione, il counseling, che muove i suoi primissimi passi all’inizio del 900 nell’ambito educativo e professionale, avente radici nella pedagogia (non nella psicologia) e nell’applicazione delle sue metodiche.

Parliamo dunque di più di un secolo di storia, di contenuti in elaborazione ed evoluzione e di integrazioni che portano questa professione di supporto ad assumere una funzione e un significato diverso nel tempo fino a rappresentare il più antico “approccio” tra la maggior parte delle correnti della psicologia contemporanea.

counselingOggi il counseling riguarda il benessere, l’educazione, la crescita personale, la carriera e le situazioni di empowerment e si estende fino ad approdare in aree che coinvolgono problemi relazionali, di conflitto, all’interno di sistemi diversi.

Per fare un esempio: se una coppia ha problemi relazionali, o se i genitori hanno costanti conflitti con figli adolescenti, o ancora, non riescono a gestire e contenere i “capricci” di bambini piccoli, ci si può rivolgere ad un counselor, meglio ancora se di formazione sistemica.

Anche nel contesto aziendale può nascere la necessità di un supporto di questo tipo: le incomprensioni tra colleghi possono generare conflitti, annullando l’ascolto e l’empatia tra le parti. In questo caso, come i precedenti descritti, il sostegno del counselor si traduce in un intervento di guida e di facilitazione di consapevolezze e apprendimenti concreti per stare meglio in quelle “relazioni” disfunzionali.

L’elemento significativo che contraddistingue questa meravigliosa professione è il focus posto proprio sul processo dinamico, sul Come!

Il counseling è condotto dunque con persone attraverso sessioni individuali o di gruppo.

counseling 2L’attività di counseling implica scelte e cambiamenti. E’ come se fosse “una prova generale dell’azione” che poi sarà la persona a mettere in atto attraverso quel processo iniziato con il counselor e che prende il nome di “autodeterminazione”.

Durante il colloquio di counseling non avviene nessuna forzatura, le decisioni prese avvengono sempre sotto il “dominio” del cliente, che in buona parte arriva in autonomia a fornire alternative valide per sé e i suoi bisogni.

Tra le tante descrizioni che si possono fare di questa professione di aiuto, mi sono imbattuta in una narrazione breve sull’etimologia.

La parola Counseling la ereditiamo del verbo inglese «to counsel» la cui origine latina è quella del verbo «consulo-ere» che significa «sollevare insieme», essendo composto dalla primitiva «cum» che significa «con», «insieme» e dal verbo «solĕre» che significa «alzare», «sollevare». formica

E’ un significato che spiega il senso profondo del contributo del counselor per le persone che sentono di non stare bene dove sono, o come sono o con chi sono, e vorrebbero sollevarsi verso una “dimensione” di se e dello stare con se e con gli altri semplicemente diverso, praticamente migliore!

Per conoscere altri ambiti del counseling, scriveteci!

Articolo di Simona Cianchetti                                                                                           (Counselor, Coach PCC)

 

RISPONDI A QUESTA DOMANDA: FAI UN LAVORO CHE TI PIACE E CHE TI DA’ CERTEZZE?

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Confucio disse “fai un lavoro che ti piace e non dovrai lavorare un sol giorno nella tua vita”..

Utopia o realtà?

Domanda difficile, mi rendo conto..

Ma soffermiamoci per un momento a pensare al nostro lavoro, a come ci sentiamo quando inizia l’orario lavorativo, all’ambiente in cui lavoriamo, ai colleghi.

Se le sensazioni non sono così positive, forse c’è già una risposta.

Potrebbe essere successo che la strada che ci ha portato a fare il nostro attuale lavoro, non sia stata guidata dalla motivazione ma da altri fattori, quali spinte genitoriali, valutazioni logistiche, sicurezza, stabilità, status sociale.

Per molti anni la nostra società ha funzionato in base al criterio: finisco di studiare, mi trovo un lavoro serio; mi impegno e faccio carriera; vado in pensione. Ormai sappiamo, però, che questo bel piano non funziona più, nel tempo è diventato inadatto alle trasformazioni che la nostra società ha messo in atto negli ultimi anni.

Non solo.

Questa epidemia mondiale ci ricorda quanto sia incerto e in continuo mutamento il nostro mondo iper-connesso e sta mettendo in crisi le certezze “del posto fisso”.

Oggi più che mai le nostre carriere possono seguire traiettorie che non sono più lineari e semplici come un tempo, l’incertezza è un dato di fatto.

Come facciamo a trasformare l’incertezza in un vantaggio?

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Vediamo come.

Un primo passo è fermarsi (e adesso forse ne abbiamo tutto il tempo).. siamo sempre così impegnati a riconoscere gli aspetti materiali del nostro lavoro, da tralasciare quelli emotivi.

 

Sembrerà una frase fatta, però “se il successo non è la chiave della felicità, la felicità è la chiave per il successo”!

Un secondo passo è capire cosa ci piacerebbe fare, pensare ai nostri talenti, togliendo il pilota automatico, osservando attentamente il proprio ambiente e diventando pienamente consapevoli di cosa ci renderebbe felici.

Quando si inizia a guardarsi dentro con consapevolezza, si possono trovare nuove strade, o anche riconoscere (e quindi sfruttare) le occasioni che si presentano in ogni momento.

knock knock

Non possiamo aspettare che l’occasione della vita bussi insistentemente alla nostra porta, potremmo non coglierla mai anche se ci è passata accanto.

Al contrario, se impariamo a guardare con occhi positivi e proattivi, se ci chiediamo sempre “cosa c’è di buono per me in questa situazione”, le occasioni non verranno sprecate.

Non dimentichiamo però che ogni azione porta con sé dei rischi, è quindi sempre necessario fare una seria valutazione dei costi/benefici insiti in ogni decisione e scelta. Quali sono i benefici, ma anche quali sono i costi e i rischi che potrei dover affrontare in questa situazione?

Per farlo, è utile sviluppare competenze come curiosità, persistenza, flessibilità, ottimismo e assunzione di rischi. E, soprattutto, fiducia in se stessi, nelle proprie competenze e nella soddisfazione che il lavoro che stiamo facendo sia quello giusto per noi.

James Hillman, psicologo junghiano lo spiega con la metafora bellissima della TEORIA DELLA GHIANDA, nel suo libro Il codice dell’anima. Ne consiglio la lettura. Hillman sostiene che tutti abbiamo un talento innato che ci definisce e che aspetta solo di essere individuato, chiede di essere realizzato per portare felicità ed equilibrio nella nostra vita…

Cosa aspettiamo?

Abbiamo il lavoro giusto e tutte le competenze che ci servono per farlo al meglio?

Se la risposta è no, questi giorni di forzata “immobilità” possono essere il momento giusto per strutturare un piano e capire come ripartire per raggiungere il nostro lavoro ideale.

dream job

Alla prossima!

articolo di  Yara Maria Bravo

 

 

GESTIRE LA CRISI.

CONSIGLI UTILI SUL PIANO PERSONALE E PROFESSIONALE PER CREARE POSITIVITA’ IN QUESTO MOMENTO DI GRANDE INCERTEZZA

coronavirus

Il momento di tensione legato alla diffusione del Coronavirus a livello globale, da un lato costituisce sicuramente una situazione di crisi, ma potrebbe anche essere un importante momento di passaggio evolutivo, nel contesto familiare e professionale.

La crisi è data dallo stato di angoscia e malessere, dalla paura di ammalarsi, dal timore di perdere i propri cari e dalle difficoltà economiche. Inoltre non sapere per quanto tempo perdurerà questo stato di crisi, aumenta ancor di più le paure.

Tutto normale e assolutamente lecito, anche nelle persone con un atteggiamento mentale più ottimista e positivo, occorre però cercare di mantenere la lucidità utile per creare un piano d’azione, prendere le giuste decisioni e essere di supporto (anziché di peso).

Capiamo come.

PER CHI STA A CASA:

stayhome

Come gestire le giornate infinite?

  1. A livello fisico, il primo consiglio è quello di non cambiare di troppo la nostra routine. Andare a letto più o meno allo stesso orario e mantenere la sveglia è utilissimo per ricordare al nostro cervello che ci sono regole quotidiane da rispettare, che il tempo non è dilatato e che occorre pianificare le attività quotidiane con un certo ordine, proprio come si faceva prima quando si aveva poco tempo a disposizione ed eravamo tutti abilissimi maestri di “gioco all’incastro”.
  2. Vestiamoci, laviamoci, prendiamoci cura di noi. Non aiuta rimanere in pigiama tutto il giorno o non farsi la barba. Sembrerà strano, ma questo agevolerà nel nostro cervello un senso di prevedibilità e sicurezza, utilissimo in questo momento!
  3. E con i figli? Stabiliamo orari per i compiti, quelli per il gioco libero e quelli per il gioco “tecnologico”. Creiamo un vero e proprio planning che anche loro possano vedere e rispettare. Ad esempio: dalle 9 alle 10.30 studio, dalle 10.30 alle 11.30 giochi liberi (nascondino, lego, puzzle, bambole, macchinine, ecc.), dalle 11.30 alle 12.30 TV, pranzo, ecc..
  4. friendsPensa positivo! Sembra ovvio, ma non è così scontato.. Dalla negatività non può svilupparsi nulla di positivo, anzi..il rischio è che si generi un loop mentale negativo. Un piccolo esercizio potrebbe essere di pensare, prima di andare a letto, quali sono gli aspetti positivi nella giornata appena conclusa. L’esercizio è utile anche per i bambini, per allenarli al pensiero positivo e al sentimento di gratitudine.

PER CHI LAVORA DA CASA O GESTISCE UN TEAM DA REMOTO:

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L’emergenza e la paura necessitano di leader che indichino la direzione.

Occorre saper far mantenere la calma e la lucidità a chi lavora con noi, non è facile…ma i capi sono lì anche per questo!

 

  1. Forniamo risposte rapide e sicure: i nostri collaboratori possono avere paura. Non dimentichiamo che, al di là degli aspetti operativi e degli obiettivi aziendali, il nostro compito è quello di preservare il benessere dei chi lavora con noi. Indiciamo riunioni periodiche, comunichiamo la direzione in cui l’azienda si sta muovendo, i prossimi passi, chiediamo loro come si sentono e che bisogni avvertono. Siamo presenti!
  2. Utilizziamo un linguaggio positivo: le parole negative o che possano abbattere (purtroppo, sfortunatamente, tragicamente, ecc..), sono assolutamente da evitare. Il ruolo del capo è di essere incoraggiante e di rasserenare. Sforziamoci di mantenere il giusto atteggiamento.
  3. Manteniamo il contatto con i nostri clienti. In questo momento difficile per tutti, è importante la presenza. Inviamo, attraverso i nostri canali di comunicazione, le modalità in cui possono entrare in contatto con noi e con l’azienda, le modalità in cui stiamo operando. Sottolineiamo la vicinanza, magari mettendoci la faccia in prima persona, questo aiuterà a mantenere alta la fidelizzazione.
  4. dog sleepingCerchiamo di mantenere il più possibile un comportamento proattivo: pensiamo a quali potrebbero essere le proposte da fare a clienti e collaboratori, troviamo nuove idee, manteniamoci attivi e non finiamo “in letargo da quarantena”, perché il rischio è che, una volta finita l’emergenza, si rischi si essere fuori dai giochi.

 

Il periodo difficile finirà prima o poi, approfittiamone per migliorare.

L’incertezza e la paura non generano solo sensazioni negative, ci aiutano e ci incoraggiano a pensare e a reagire!

Qualora però avvertissimo sensazioni di malessere, non c’è niente di male ad alzare la mano, mettere da parte l’orgoglio e chiedere aiuto a un professionista che possa aiutare a gestire la difficoltà.

Contattateci per una sessione di coaching gratuita,

siamo a disposizione!

devodevo

 

 

Basta procrastinare!

tomorrow

Come modificare la cattiva abitudine del rimando?

Sarà successo a tutti almeno una volta nella vita che durante un lavoro importante, un’attività in scadenza, un lavoro domestico, un compito noioso, invece di essere “sul pezzo”, concentrati per terminare nel modo migliore, qualcosa sia sfuggita di mano e l’attività importante abbia lasciato il posto ad altro.

Le conseguenze saranno state la perdita di opportunità,  ritardi,  vivere freneticamente uno stato stressante, il senso di colpa, la rabbia con se stessi.

Ma perché rimandiamo?procrastinating

L’impulso a procrastinare dipende da svariati motivi: a volte entra in gioco perché si hanno talmente tante cose da fare che il cervello cerca una scappatoia, altre invece la pigrizia o la stanchezza vincono sul senso di responsabilità.

Occorre sapere che, per quanto il procrastinare possa sembrare generato da pigrizia o da mancanza di metodo, nel cervello dei procrastinatori cronici operano veri e propri meccanismi biologici inconsci che li portano a rimandare gli impegni e questo avviene in modo più frequente quando ci si sente sovraccarichi.

Paradossalmente il nostro cervello smette di collaborare e mette in atto un programma di boicottaggio. La soluzione semplice per evitarlo è ELIMINARE le attività di sovraccarico, DELEGARE ciò che può essere fatto da altri, NEGOZIARE la priorità con cui evadere le attività.

Un’altra strategia utile è focalizzarsi sulla sostituzione della cattiva abitudine con altre più funzionali, piuttosto che sul combatterla.

Di seguito si propongono alcuni consigli per evitare di cadere nel meccanismo inconscio che ci porta a rimandare:

cubo1.    Prima le cose difficili. Anche se potrebbe scoraggiarci iniziare dalle attività più complesse o impegnative, questa strategia è utilissima per gestire il tempo nel modo migliore. Affrontare le attività difficili come primo obiettivo da portare a termine aiuta il senso di “leggerezza” per le piccole attività che seguono;

2.    sirenaNon lasciarsi sedurre: i pensieri associati all’impulso della procrastinazione sono “seducenti”  (finisco il film e poi mi metto al lavoro, gioco con il cellulare ancora per 5 minuti e poi basta..), ma portano a credere di avere tutto il tempo a disposizione per recuperare le proprie mancanze. Attenzione…sono come il canto delle sirene!;

3devodevo.    Devo, devo, devo..: le imposizioni rendono sgradevole anche il compito meno brutto (devo andare a correre domattina, devo andare in palestra perché ho pagato l’abbonamento e non lo sto utilizzando, dovrei smettere di fumare, non devo mangiare cioccolata, ecc..), perché richiamano alla mente gli obblighi e le responsabilità. Anche le persone più attente e responsabili sono meno motivate quando si auto-impongono qualcosa con questo verbo;

passi4.   “Fare un altro miglio”: se abbiamo un’attività molto grossa da portare a termine, pensare alla totalità della sua gestione ci spaventa e ci potrebbe gettare nello sconforto. Per evitare questa trappola mentale occorre definire piccoli sotto obiettivi e “smarcarli” di volta in volta…ogni passo in più ci renderà vicina la meta e saremo invogliati a non rimandare nulla per chiudere l’attività;

relax5. Trova del tempo per lo svago: riservarsi del tempo per fare attività che divertono di più, più leggere o in generale di svago, è una buona strategia per rimanere focalizzati nel momento del lavoro ed evitare di procrastinare. Benjamin Franklin diceva che la giornata dovrebbe essere suddivisa in tre parti, una dedicata al riposo, una al lavoro e una allo svago. Se riempiamo troppo le nostre giornate di attività impegnative, il procrastino potrebbe essere una strategia di “pausa” messa a punto dal nostro cervello;

ordine6. Lavorare nell’ordine: non si tratta del solito consiglio scontato. E’ fondamentale lavorare nell’ordine per evitare di distrarre l’attenzione in altre attività. L’ordine potrebbe anche essere non solo relativo allo spazio fisico in cui si lavora, ma anche all’ordine e organizzazione mentale delle attività da svolgere;

7. perfezionistaStop ai perfezionismi: la ricerca della perfezione ci porta a perdere tempo che invece potremmo dedicare ad altre attività (che rimandiamo), oppure potrebbe essere un alibi, una scappatoia del tipo “visto che non mi è rimasto abbastanza tempo per completare il lavoro come mi sarebbe piaciuto fare, lo rimando ad un altro momento in cui avrò tutto il tempo necessario”. In questo caso il perfezionismo potrebbe portarci a rimandare all’infinito!

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Rompere l’abitudine del procrastinare non è facile, questo è chiaro.

Fare piccoli passi quotidiani per cercare di sopraffare l’abitudine può essere un buon inizio…poi col tempo si vedrà…sempre che non ci si sia messi a pensare ad altro!

😜

 

 

 

 

 

 

LEADERSHIP 3.0 – ALLENARE COMPETENZE EMOTIVE

emotional intelligence

NON CI SONO PIU’ I CAPI DI UNA VOLTA….

Sembrerebbe una frase fatta, come quelle che abbiamo sentito dire (o pronunciato) mille volte…vero?

Proviamo a pensare un momento al nostro capo: è un buon capo?

E noi? Lo siamo?

Se abbiamo come modello di riferimento un nostro “vecchio” capo, dobbiamo convincerci che non possiamo comportarci come lui…non va bene oggi e non otterremmo gli stessi risultati.

Il motivo è che non possono più esistere i capi di una volta perché la società è cambiata e sia le persone che le organizzazioni lavorano in modo diverso.

Le aziende sono diventate fortunatamente sempre più attente alle persone, viste non più come “macchine” ma come UMANE RISORSE, con relazioni, emozioni, talenti e sono quindi considerate importantissime perché rappresentano il valore aggiunto e il più grande vantaggio competitivo aziendale.

Eppure in alcune aziende in cui mi capita di lavorare come consulente, alcuni imprenditori sono fermamente convinti che i risultati aziendali e la gestione del team di lavoro siano un lavoro “di testa e non di cuore”. no no

Lo trovo poco utile e poco funzionale.

 

Nelle aziende del terzo millennio non possono esistere dei semplici manager, servono veri e propri leader,  capaci di raggiungere gli obiettivi facendo leva sulla componente emozionale propria e delle proprie risorse.

Fra i tanti libri che ho letto su questa tematica, ce n’è uno in particolare che secondo me fornisce gli spunti giusti e propone idee innovative sul management, sulla leadership e sulla gestione delle persone.

E’ un testo di Daniel Goleman del 2012 dal titolo  Leadership emotiva: una nuova intelligenza per guidarci oltre la crisi.

 goleman.png

Daniel Goleman, scrittore, psicologo e giornalista statunitense, è autore del best-seller “Intelligenza emotiva” uscito in Italia nel 1995 che descrive come:

 “l’insieme di specifiche capacità – consapevolezza e padronanza di sé, motivazione, empatia e abilità nelle relazioni interpersonali – che permettono di utilizzare le emozioni come un patrimonio di ricchezza straordinaria a vantaggio nostro e della collettività”.

In realtà, come sostiene Goleman, sono proprio le abilità legate agli aspetti emotivi e di relazione a fare veramente la differenza nelle organizzazioni e le competenze tecniche rappresentano abilità di base, necessarie ma non sufficienti, per ricoprire ruoli dirigenziali.

Influenzare emotivamente i propri collaboratori, saperli motivare innescando sentimenti positivi e riuscendo a liberare l’espressione dei talenti delle persone è quello che davvero rappresenta il requisito indispensabile per riuscire a fare la differenza nella gestione dei team di lavoro. 

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I “leader emotivi” esprimono nel modo migliore, secondo Goleman, le capacità proprie dell’intelligenza emotiva riuscendo a metterle pienamente a frutto nella guida dei propri collaboratori.

Una ricerca dell’UCLA (Università di California, Los Angeles) ha rivelato che la percentuale di leadership di successo attribuibile al QI (quoziente intellettivo) è pari al  7% , mentre  il restante 93% del successo deriva da fiducia, integrità, autenticità, onestà, creatività, presenza e adattabilità (in una parola QE – quoziente emotivo).

L’Intelligenza Emotiva è quindi ciò che distingue la performance base da quella di livello superiore, sia nei managers che nei singoli membri del team.

I leader emotivi  (capaci e consapevoli delle proprie emozioni e di quelle altrui) sono in grado di creare un ambiente lavorativo armonioso, positivo ma che possono anche, al contrario (in assenza di questa consapevolezza), renderlo tossico e distruttivo a livello psicologico, inefficace e disfunzionale.

Non è quindi più valida la credenza che nelle organizzazioni le emozioni rallentino i processi di lavoro e il business e che vadano quindi represse o non considerate…occorre cambiare approccio!

E voi? Che tipo di leadership adottate?

 

“Le persone competenti sul piano emozionale – quelle che sanno controllare daniel golemani propri sentimenti, leggere quelli degli altri e trattarli efficacemente – si trovano avvantaggiate in tutti i campi della vita, sia nelle relazioni intime che nel cogliere le regole implicite che portano al successo politico”.

Daniel Goleman

 

L’ARTE DEL GENITORE

genitori

Essere dei genitori è diventato difficile.

Non che in passato non lo fosse, ma i nostri genitori avevano a che fare con bambini e adolescenti meno interattivi, oserei dire meno “svegli”.

Le nuove generazioni non amano conformarsi e seguire le regole: da un lato questo è positivo, significa evoluzione, diversificazione, apertura mentale..ma ai poveri genitori chi pensa?

Noi genitori, già alle prese con realtà lavorative complesse e che richiedono sempre più tempo in ufficio, ci troviamo a sentirci spesso sopraffatti dalle situazioni: i compiti, gestione delle regole familiari, le gelosie con gli altri fratelli, l’organizzazione del tempo libero dei bambini e – ciliegina sulla torta –  i conflitti che arrivano già dalla pre-adolescenza.

Come fare a uscirne vivi?parents

Come gestire veramente bene la relazione genitore-figlio imparando a farsi ascoltare e ad ascoltare a nostra volta?

Come farli crescere sereni ed educati?

Quello che noi genitori dovremmo imparare a fare è ciò che apprendiamo in azienda. Avete presente la leadership situazionale? Ovvero, cambiare stile a seconda della fase di maturità del collaboratore.

Ecco, il genitore dovrebbe cambiare atteggiamento nei confronti dei figli in base alla situazione che si sta vivendo o al problema da affrontare. Un approccio sempre direttivo, eccessivamente protettivo o (all’opposto) troppo amichevole, non si presta bene alle diverse fasi di crescita dei nostri figli.

Una sorta di genitore-coach, che si mette davanti, di lato e ad un certo punto dietro il proprio figlio per proteggerlo, per dargli gli strumenti di valutazione indipendente e per lasciarlo andare..

perfect parents.pngQuesto approccio è complesso da gestire dal punto di vista emotivo perché i genitori cercano sempre di aiutare i propri figli evitando loro di commettere errori per non vederli soffrire.

Tuttavia essi dovrebbero quasi concentrarsi di più nel preparare la strada che i figli percorreranno, favorendone attitudini e potenzialità e lasciandoli liberi di scegliere, sostenendo i loro “gesti spontanei” e aiutandoli a riconoscere il proprio sé.

Ma se i figli prendono una strada diversa da quella che si attendono i genitori?

Non c’è da preoccuparsi, essi continueranno sicuramente a vivere i valori che gli sono stati trasmessi e sapranno cavarsela autonomamente con una buona dose di autostima.

***

Questi e altri temi verranno trattati nel mio prossimo seminario sull’ARTE DEL GENITORE a Milano il 13 maggio con altre due colleghe coach Simona Cianchetti e Yara Bravo.

Il seminario si pone l’obiettivo di lavorare sulla consapevolezza dei genitori relativamente alle proprie modalità educative, che riflettono le modalità educative che hanno ricevuto a loro volta e che talvolta rendono difficile questo compito.

Si analizzeranno gli atteggiamenti e le parole errati che potrebbero demolire l’autostima dei figli o incrinare la relazione con essi.

Verranno inoltre forniti strumenti per facilitare la relazione agendo allo stesso tempo su:

  • L’EMOTIVITÀ
  • LA GESTIONE DEL CONFLITTO NEL PERIODO ADOLESCENZIALE
  • L’ACCRESCIMENTO DELLA LORO AUTOSTIMA
  • IL RISPETTO DELLE REGOLE

Ecco la locandina…le iscrizioni sono aperte!!!

locandina genitori

Che cos’è la felicità e da cosa dipende

felicita

In un periodo sociale di grande incertezza, nel quale ci troviamo a dover supportare molti amici o ex colleghi senza lavoro e in cui si fatica ad essere motivati… come si può fare a vivere con felicità, speranza e soprattutto con un atteggiamento positivo?

Perché diciamocelo, quando tutto va bene è facile essere felici e motivati, mentre quando gira male è molto più complesso e sembra di avere una zavorra sulle spalle che ci abbatte fisicamente e moralmente.

Molti studi hanno recentemente dimostrato che la felicità e la motivazione di una persona non dipendono soltanto da fattori oggettivi (reddito, successo sociale, salute) quanto soprattutto da un atteggiamento mentale positivo.

Sembra quindi confermato il pensiero di Aristotele che già nella Grecia Antica diceva che “i soldi non fanno la felicità”..

Anche il paradosso di Easterlin (negli anni ’70)  ha evidenziato, a conferma di quanto detto, che il reddito non giustifica sufficientemente il benessere di un individuo e da ultimo,  il recente saggio di A. Weiss e T.C. Bates “Happiness is a Personal(ity) thing” (2008) individua addirittura alcuni fattori determinanti la nostra felicità.

Secondo i due autori la felicità è determinata per il 50% da fattori genetici e modelli condizionanti familiari, solo per una piccolissima parte (circa 8%) da fattori materiali (finanze, status, potere) e per il resto dall’atteggiamento mentale dell’individuo.

happinessAppare quindi ampiamente confermato come la felicità non sia qualcosa da vincere o conquistare, bensì da cercare dentro di noi e continuare a generare giornalmente.

Il nostro cervello ci supporta in questo (se non facciamo resistenza), mantenendo sempre attive le centraline del piacere e della gratificazione, e producendo ormoni come la serotonina.

Quali sono le convinzioni che ci portano a opporre resistenza?

  1. La felicità non dipende da noi, è un fattore che arriva dall’esterno”: come già detto, non sono fattori materiali a renderci felici, ma le condizioni noi che poniamo alla felicità a renderci insoddisfatti.
  2. Essere felici è da sciocchi: può succedere che la felicità sia scambiata per superficialità. C’è anche il detto “il riso abbonda sulla bocca degli stolti” che riassume questa convinzione evidenziando che piuttosto l’unico modo di essere profondi sia essere tristi e malinconici.
  3. La felicità è fenomeno raro: alcune persone sono convinte che come gli amici veri si possono contare sulle dita di una mano, così la felicità corrisponde a rarissimi eventi della vita (nascita di un figlio, matrimonio, un’offerta lavorativa gratificante, ecc..) e non nelle piccole cose quotidiane.
  4. Essere felici porta sfortuna: Altra convinzione che deriva da fattori culturali porta a pensare che “chi ride il venerdì, piange per tre dì..”. E’ un fattore scaramantico culturale secondo cui meglio non essere troppo felici perché la sfortuna potrebbe essere dietro l’angolo..
  5. Non è giusto essere felici: con tutte le persone che soffrono, come si fa ad essere felici? E’ quasi una questione di tipo morale secondo cui essere felici è la manifestazione di una mancanza di rispetto nei confronti del dolore o delle difficoltà.

Ecco allora qualche spunto per apprendere la felicità:

consapevolezza

Consapevolezza: si può iniziare a cambiare solo se si ha la consapevolezza che qualcosa di noi non va bene o non ci piace;

 

proattivita

Proattività: inutile aspettare che qualcosa cambi…il primo passo è mettere in atto azioni ben precise per fare accadere qualcosa;

assertiveness

Scelte linguistiche: iniziamo anche a scegliere le parole che utilizziamo diminuendo le parole negative e scegliendo solo quelle positive;positive

Bilancio positivo di fine giornata: abituiamoci a chiederci, alla fine di ogni giornata, cosa ci è successo di positivo e impariamo a viverlo con gratitudine, anche per le più piccole cose.

 friends

Amici: le nostre frequentazioni possono condizionare il nostro stato d’animo. Scegliamo persone felici che sappiano farci ridere e allontaniamoci da quelle negative..

 

Alla prossima amici…LE COSE BELLE ACCADONO A CHI SORRIDE!

 

QUANTO SONO SODDISFATTO DI ME?

PREJUD

Chissà quante volte abbiamo fatto un’autoanalisi di questo tipo.

Sicuramente avremo delle aree in cui non ci sentiamo a nostro agio, aree in cui sentiamo di non essere adeguati..in cui la nostra autostima non è molto alta.

Secondo voi, avere una buona autostima è qualcosa di innato o acquisito?

È carattere? Quali sono fattori possono incrementarla o demolirla?

Ci sono molti studi a riguardo..ne ho letto recentemente uno interessante che evidenzia alcuni dati degni di approfondimento:

  1. La nostra autostima cresce sino all’età di 21-23 anni
  2. Non si evidenziano differenze di genere relativamente a chi si sente meglio con se stesso
  3. tra i fattori legati ad un buon livello di autostima, vi sono la stabilità emotiva e l’estroversione
  4. il condizionamento genitoriale influenza profondamente il livello di autostima

Ho integrato questa ricerca al mio seminario sull’AUTOSTIMA E EMPOWERMENT che vedrà la sua quarta edizione il 22 ottobre 2016.

Allego la locandina per chi volesse partecipare!

locandina-autostima

Vi aspetto!!

 

ESSERE CAPO E DONNA: LA LEADERSHIP AL FEMMINILE

 

scarpa tacco

Oggi e domani terrò un corso sulla Leadership al femminile.

Cosa significa essere capo e donna? Nei diversi contesti familiare e aziendale le donne dimostrano una maggiore capacità di adattamento e un’ ampia sensibilità.

Esse vantano una serie di ottime qualità manageriali e relazionali: la capacità di affrontare le complessità e gli imprevisti, l’etica nel lavoro, la capacità di condividere le responsabilità riuscendo a valorizzare i propri collaboratori, la velocità nell’apprendimento, l’abilità nel problem solving, la cura dei particolari, la concretezza, l’ordine e la diligenza….

MA….ciò che a volte manca è l’assunzione di un ruolo di leader per la naturale tendenza a non valorizzarsi mai abbastanza o a diventare tiranne!

La donna – capo  è  sicuramente diversa dai colleghi uomini e presenta inevitabili caratteristiche femminili. Inoltre essendo cresciuta in un sistema di valori, di regole, di conoscenze costruito dagli uomini, la donna-capo ha una difficoltà maggiore nel quotidiano, data dall’ambivalenza:

–         Essere se stessa? Mostrando anche i suoi lati più fragili.. oppure

–         Adattarsi a modi e stili più maschili?

 E COSA SCEGLIE SECONDO VOI???  boss donna

E’ vuoto il modello di leadership femminile perché le donne hanno pochi esempi di donne leader da modellare..oggi le donne imitano l’unico modello che conoscono, l’unico esistente e l’unico considerato vincente: quello maschile. Tendono quindi a trasformarsi: assumono una postura, un linguaggio e atteggiamenti che rinunciano alla femminilità, considerata (erroneamente) come sinonimo di fragilità e vulnerabilità.

QUALI SONO LE DIFFERENZE FRA LEADERSHIP MASCHILE E FEMMINILE?

Le donne sono maggiormente orientate alle relazioni e all’aiuto. Non hanno vita facile perché su di loro c’è  uno standard di performance e di risultato atteso superiore agli uomini (sin dai tempi della scuola).

Sono maggiormente portate ad organizzare il lavoro in modo strutturato, ad assicurarsi che il compito venga eseguito e a motivare per la sua corretta esecuzione.

Hanno maggior capacità di trasmettere entusiasmo, di coinvolgere gli altri e dimostrano di essere maggiormente preoccupate degli altri e della loro crescita, sono più portate per sviluppare strette relazioni lavorative.

Gli uomini sono molto più orientati al risultato e hanno sviluppato la capacità ad avere approcci più strategici. Sono maggiormente aperti alle nuove idee e si assumono più facilmente dei rischi.

Sono più inclini ad imparare le lezioni dal passato e a trovare nuove vie per cambiare il futuro. Non sono molto portati al multitasking. Paradossalmente alcuni dei più importanti leader mondiali (uomini) hanno unito a questi skills più maschili, l’empatia, l’ascolto, la sensibilità e talvolta la vulnerabilità.

COME ESPRIMERE LEADERSHIP CON IL CORPO?

  • LO SGUARDO: Al lavoro per avere credibilità, non essere fraintese ed essere prese sul serio occorre imparare a usare lo sguardo giusto per comunicare autorevolezza e non è fonte di ambigue interpretazioni. Per dare la percezione di mostrare interesse, trasmettere autorevolezza e non essere sfidanti, non si possono superare i 3 secondi di sguardo “occhi – negli – occhi”.
  • LA TESTA : Inclinare troppo la testa o annuire più del necessario è una abitudine tipicamente femminile. Questa postura si può usare per dimostrare attenzione, pertesta storta incoraggiare qualcuno a continuare ma per dare l’immagine di una donna sicura di sé o per trasmettere la spinta decisionale la testa va tenuta dritta e ferma in posizione neutra. Il collo è da sempre associato con le emozioni umane e quando pieghiamo la testa, stiamo emettendo un messaggio amichevole.  Nel mondo femminile, un tale cenno viene automatico quando si nota qualcosa di estremamente carino o tenero o quando stiamo dimostrando la nostra attenzione agli altri. In materia di comunicazione non verbale, la testa inclinata è un comportamento di sottomissione.
  •  IL CORPO: La postura tipica delle donne  è quella “a gomitolo”:  si auto-rimpiccioliscono come se avessero timore di rubare spazio tenendo le braccia incollate al corpo, accavallano le gambe, incurvandosi in avanti, occupano poco spazio. Per esprimere leadership occorre espandersi allargando le braccia, tenendo le spalle all’indietro e la testa eretta. Questo comunicherà assertività e fiducia in se stesse e nelle idee che si propongono.
  •  LE MANI: Uomini e donne, nei momenti di stress, usano dei gesti per scaricare la propria tensione e questo non è un male. Le donne ne mettono in atto alcuni tipicamente femminili che possono essere fraintesi con insicurezza e/o sensualità: accarezzarsi le mani,  toccarsi i capelli,  arrotolarsi una ciocca di capelli, giocare con braccialetti e collane o mangiarsi le unghie. Occorre imparare a controllare le mani negli incontri di business per non fare percepire alcun segnale di tensione.
  • LA VOCE: La voce femminile è un arma. Ma anche un arma a doppio taglio! Imitare la voci sensuali o vocine da bambine non va bene in azienda perché la vocina indebolisce la tua credibilità e il tuo potere. Sicuramente si otterrà l’effetto di non intimidire chi sta intorno ma si darà l’impressione di una persona inaffidabile, poco sicura di sé che chiede il permesso di fare e dire invece di affermare la sua presenza e la sua personalità. Impostare la propria voce e se necessario fare un corso di teatro per una voce di maggiore impatto e diaframmatica.
  • IL SORRISO:Sapere quando usare un sorriso non è sempre facile da comprendere e usarlo come una tattica ruffiana per ottenere favori rischia di essere letto male e di attirare le antipatie di colleghi e colleghe. Sorridere troppo spesso può dare un segnale di ‘voglio piacere a tutti‘ e si rischia l’effetto zerbino.  Se si sta dando un feedback negativo a qualcuno evitare di arricchirlo con un sorriso. Lo slow smile (il sorriso lento): secondo alcuni ricercatori il timing di un sorriso fa la differenza. Un sorriso spontaneo non è mai rapido. Se la zona sorriso è solo nell’area bocca (foto 1) è un sorriso finto, che manca di sincerità perché in un sorriso naturale anche gli occhi danno il loro contributo(foto2).

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  • LA STRETTA DI MANO: La stretta di mano delle donne è spesso timida, debole e questo trasferisce fragilità e poca fiducia in se stesse. Imparare a dare una buona stretta

Ultimo consiglio:  non abdicate alla vostra femminilità e alle vostre caratteristiche di genere. Lavorate un po’ di più sull’autorevolezza e  speriamo che le aziende promuovano un management misto.  Creare un nuovo modello femminile, diverso da quelli esistenti è importante…e per le aziende..il fatto che sia “diverso”  è solo un valore aggiunto!

 

COME ALLENARE LA PROPRIA AUTOSTIMA

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Le radici della nostra autostima risiedono nella nostra infanzia, dove abbiamo appreso la consapevolezza di essere amati, ascoltati, accettati e riconosciuti dai nostri genitori.

Da piccoli, infatti, avevamo tutti una grandissima fiducia in noi stessi…chi ha figli piccoli può ancora sperimentare, divertendosi, il loro senso di onnipotenza (“vorrei fare il calciatore e l’astronauta!” , “vorrei fare il pittore e lo scienziato!”).

Il comportamento e l’incoraggiamento dei genitori è in tal senso fondamentale perché è da loro che il bambino apprende e costruisce la sua personalità, imparando anche a differenziare il concetto di sé (fare l’astronauta e il calciatore) dalla valutazione positiva di sé (autostima).

L’autostima è solo una parte di ciò che costituisce la totalità del benessere, ma è fondamentale ed agisce come se fosse una lente di ingrandimento messa al contrario che rimpicciolisce l’auto-percezione delle proprie risorse personali.

Cosa succede quando si ha una bassa percezione di sé?

low_self-esteemSuccede che l’idea che abbiamo di noi riesce a condizionare il nostro comportamento e le nostre aspettative verso noi stessi per “auto-confermarci” questa convinzione. L’effetto PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA è il risultato di questo processo ed è capace di generare un circolo vizioso che porta al peggioramento di uno stato interno già negativo in partenza che può quindi soltanto peggiorare: l’aspettativa di un fallimento apre la strada al fallimento che genera nuove aspettative di fallimento, ecc…

Come fare quindi se da adulti ci si ritrova con una bassa autostima?

La buona notizia è che gli esseri umani sono sistemi complessi adattivi, hanno cioè la capacità di cambiare, evolversi e adattarsi nella loro relazione con se stessi e con gli altri…per cui non è mai troppo tardi per allenare la propria autostima!

Poiché l’autostima è una percezione del proprio valore, delle proprie capacità e anche della calimero3propria unicità, si potrebbe iniziare a lavorare sulle convinzioni che ognuno ha di se stesso.

Talvolta si ha una bassa percezione del proprio valore solo in un contesto della propria vita (ad esempio nelle relazioni con il sesso opposto) ma per il resto si è soddisfatti.

Nel mio prossimo seminario del 16 aprile 2016 a Milano verranno presentate alcune tecniche per lavorare sul proprio valore personale rimuovendo gli schemi inconsci che generano l’effetto profezia che si auto-avvera.

Un’esperienza profonda che partirà dall’analisi di ciò che abbiamo vissuto nella nostra infanzia e che ha “minato” la nostra autostima, sino ad arrivare all’empowerment, ovvero alla riprogrammazione della propria mente per creare nuove consapevolezze e una visione positiva di se stessi.

Ecco la locandina!  seminario autostima

Vi aspetto sabato 16 aprile 2016!

Per info e iscrizioni: info@emmecistudio.net